Questa estate sta per finire. E con essa il calciomercato. In attesa dei botti finali del nostro Napoli, possiamo fermarci a riflettere su quello che abbiamo vissuto nella calda stagione.
In particolare, merita una riflessione più ampia l’ingresso in scena prepotente dell’Arabia Saudita nel calcio internazionale: se ne fa un gran parlare in questi ultimi tempi, ma molto spesso si discute con un pizzico di superficialità, che ci può portare a sottovalutare questa nuova realtà e le conseguenze che la sua presenza può comportare al calcio italiano ed europeo.
Secondo me, infatti, si sottovaluta la potenza araba quando si dice che faranno la stessa fine della Russia, della Cina, del Giappone o degli USA, aka il cimitero degli elefanti. Questo in parte è avvenuto, ma, quando club come l’Al-Ahli diventa capace di essere attrattivo per giovani promesse del calcio europeo come Gabri Veiga, allora forse vuol dire che qualcosa è cambiato.
Non è (solo) una questione di soldi. O, meglio, lo è stato all’inizio, quando sono stati convinti i primi calciatori (CR7), quasi nuovi esploratori di questa terra desolata, i primi coloni di un nuovo calcio. Adesso, nonostante Rihad (come Roma) non possa costruirsi in un giorno, il tasso tecnico si è notevolmente accresciuto (almeno per le top 4) e, dunque, comincia a diventare sempre più attrattivo anche sportivamente e, temo, lo sarà sempre di più, almeno fino al 2030.
Perché il 2030? Ci sono i Mondiali da essere assegnati, ovviamente. Non è un mistero la candidatura araba e nemmeno il fatto che costituisca l’alternativa più accreditata per ospitarli.
Allora perché i Mondiali e perché l’interesse al calcio, in generale? Soft power. Banalmente soft power. L’industria calcistica, ormai parallelamente a quella dell’intrattenimento, è diventata un veicolo importantissimo per l’esportazione dell’immagine del proprio paese. È un meccanismo simile a quello che ha portato altri paesi asiatici, come il Giappone e la Corea, a essere conosciuti, riconosciuti e ritenuti attrattivi in tutto il mondo, grazie rispettivamente al mondo dell’animazione (anime e manga) e a quello del pop (il K-Pop). Nel caso di specie, l’unica differenza sta nel fatto che non sono stati esportati modelli propri: si sta prendendo il gioco più seguito al mondo per far parlare del proprio paese e farlo conoscere.
È evidente che, a differenza, ad esempio, del caso cinese, qui a giocare un ruolo fondamentale è il sistema dello Stato stesso: basti pensare al ruolo che ha il PIF nel sostegno a queste mastodontiche operazioni economiche.
E fin qui, a me sembra tutto chiaro. Un’ultima cosa: è un’operazione innocente? È difficile non pensare che veicolare la propria cultura e i propri valori, attraverso la crescita esponenziale del movimento calcistico (secondo l’equazione Arabia Saudita=terra dei soldi illimitati, la nuova Eldorado), sia un modo di fare sportwashing.
Usare il calcio per acquistare prestigio internazionale agli occhi delle persone e, contemporaneamente, dare un’idea dorata del proprio paese? Nascondere le proprie condotte contrarie ai più elementari diritti umani?
Oggi, purtroppo, serve anche a questo. A meno che non ci sia qualcuno che disveli l’ipocrisia e che vigili su queste pratiche scorrette e svilenti del gioco che tutti amiamo.